Il tema della ragionevole durata del processo è stato negli ultimi anni oggetto di un acceso dibattito, soprattutto per quello che concerne la responsabilità civile nel caso di una sua violazione. Esso trae origine da un precetto della Costituzione, nello specifico dall’art. 111 Cost. il quale prevede il principio del giusto processo, ed in maniera particolare al comma 2 specifica che la legge deve assicurare la ragionevole
durata del processo. C’è da sottolineare che la ragionevole durata non rappresenta soltanto un diritto della persona coinvolta nel processo, ma anche una garanzia oggettiva di buon funzionamento della giustizia.
durata del processo. C’è da sottolineare che la ragionevole durata non rappresenta soltanto un diritto della persona coinvolta nel processo, ma anche una garanzia oggettiva di buon funzionamento della giustizia.
In verità, questo precetto costituzionale è privo di reali indicazioni sulle concrete modalità di attuazione di tale principio, tant’è che il legislatore si è trovato a dare una risposta coerente con il nostro ordinamento, e un po’ meno inizialmente con quello comunitario. Il problema da risolvere quindi era basato principalmente sull’individuazione del tempo massimo di durata dei processi, allo scopo di evitare che la lungaggine processuale si potesse tramutare inevitabilmente in una violazione della sfera giuridica delle parti.
A colmare tale lacuna, era intervenuta in principio la legge Pinto (l. 89/2012), la quale aveva previsto il diritto di ciascun cittadino di ottenere un risarcimento del danno, di natura patrimoniale e non, nel caso in cui fosse accertato l’eccessivo protrarsi del processo.
Per quello che concerne invece la nuova responsabilità civile dei magistrati in caso di violazione della ragionevole durata del processo, essa viene disciplinata dalla legge n. 18 del 27.2.2015 che va sostanzialmente a riformare la legge Vassalli (legge 13 aprile 1988, n. 117) che disciplinava la responsabilità civile dei magistrati secondo un sistema di responsabilità indiretta per dolo o colpa grave e nel caso di denegata giustizia.
La necessità di emanare la legge 18/2015 scaturisce anche dal fatto di dover ottemperare alle indicazioni del diritto dell’Unione Europea, che per esempio tramite l’art. 6, par. 1, Cedu, stabilisce che “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge”. Infatti, la legge Vassalli era stata oggetto di una condanna dell'Italia con la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 24 novembre 2011 (C-379/10), che aveva provocato l’apertura di due procedure di contenzioso con la Commissione europea.
Quello che cambia sostanzialmente con la legge 18/2015 dal punto di vista della responsabilità civile, è che i magistrati saranno chiamati a rispondere per il danno ingiusto provocato da un comportamento, un atto o provvedimento giudiziario da loro posto in essere con dolo o colpa grave durante l’esercizio delle loro funzioni, ovvero nel caso di diniego di giustizia. La legge stabilisce altresì che il magistrato non potrà essere ritenuto responsabile per l’attività di interpretazione di norme di diritto né per quella di valutazione del fatto e delle prove, salvo nei casi precisati dalla legge.
Inoltre, a mente dell’art. 2 comma 3 della legge in questione, i magistrati saranno ritenuti responsabili per colpa grave nel caso di manifesta violazione della legge e del diritto dell’Unione Europea, ovvero nel caso di affermazione di un fatto la cui esistenza sia incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento ovvero, al contrario, qualora vi sia la negazione di un fatto la cui esistenza risulti in modo incontrastabile dagli atti del giudizio. Il magistrato rimarrà ovviamente responsabile per i fatti costituenti reato commessi nell’esercizio delle sue funzioni.
Il termine entro il quale l’azione di risarcimento può essere proposta, termine che continua a essere stabilito a pena di decadenza, passa da due anni a tre anni che decorrono dal momento in cui l’azione è esperibile, e non sarà più soggetta al c.d. filtro di ammissibilità della domanda, che era previsto dall’art. 5 della legge 117/1988.
Inoltre, dal punto di vista dell’azione disciplinare, viene meno il termine di due mesi entro cui doveva essere esercitata l’azione disciplinare in quanto nella legge Vassalli il termine decorreva dalla comunicazione del decreto di ammissibilità dell’azione, ma essendo venuto meno il filtro di ammissibilità, è stato eliminato anche il relativo termine precedentemente previsto.
Il legittimato passivo resta sempre lo Stato, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale avrà l’obbligo di rivalsa nei confronti del magistrato. La misura della rivalsa sarà pari alla metà dell’annualità dello stipendio del magistrato, e non più di un terzo come era previsto nella previgente disciplina.
Dott. Nicola Amato
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